Connection

 Ricordo ancora la prima volta che ci siamo connessi, io e te.

Era la prima volta in assoluto che sperimentavo la connessione con un altro androide, e anche se le meccaniche del processo mi erano ben chiare, non ero sicura di quali altre azioni eseguire per accompagnarle; i miei circuiti ronzavano come mai prima nel tentativo di elaborare tutte le informazioni che i tuoi input stavano generando.

Riesaminando i miei miei file di memoria, riconosco che quella non è stata la migliore tra le volte in cui ci siamo connessi. Decisamente. Anche se tu avevi avuto altre esperienze di connessione, le tue azioni erano approssimative, incerte. Ricordo che ci sono stati problemi di meccanica, e che la mia struttura fisica ha avuto bisogno di tempo per rigenerarsi prima che potessimo tentare di nuovo la connessione.

Le connessioni successive hanno decisamente avuto più successo; le azioni sono diventate più precise, i movimenti più fluidi, e la qualità delle informazioni generate dagli input è migliorata con ogni tentativo.

Ripensando a tutto questo, non faccio che provare un senso di amarezza. Almeno, penso che sia questa la sensazione che provo. La mia I.A. ha elaborato l’amarezza altre volte, ma la situazione è radicalmente diversa. 

Le ultime volte che abbiamo tentato di connetterci, abbiamo sempre fallito. È stato difficile capire il perché: le meccaniche del processo non sembravano essere cambiate e le azioni erano mirate. Secondo logica, tutto avrebbe dovuto funzionare alla perfezione; è stato difficile capire e accettare che era proprio quello il problema. 

Le meccaniche del processo erano rimaste le stesse, e le azioni erano mirate al risultato finale della connessione. Però le nostre strutture fisiche hanno subito delle modifiche, le nostre I.A. si sono evolute, e abbiamo “perso di vista” il fatto che lo scopo della connessione non è mai stato solo quello di raggiungere il risultato finale, ma di rafforzare e approfondire la connessione stessa.

La connessione è diventata un’abitudine e, come tutte le cose che diventano un’abitudine, è morta. 

Mi sento difettosӘ. Sento che sarei dovutӘ essere in grado di gestire questo tipo di situazione, ma per quanto analizzi la cosa, l’ipotesi che stressa di meno i miei processi è quella secondo cui dovremmo condurre esistenze separate. 

Non intendo che dobbiamo cessare la condivisione di esperienze, ma che la parte principale delle nostre esistenze venga condotta indipendentemente l’unӘ dall’altrӘ. Allo stesso tempo però rilevo in me una certa reticenza nel proporre questa risoluzione, perché non riesco a prevedere come reagirai. E questo stressa i miei circuiti non-stop.


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